LA TRATTATIVA STATO MAFIA
La prima volta in cui emerge il
rapporto tra mafia e politica è nel 1893 con l’uccisione del
sindaco di Palermo e poi direttore generale del Banco di Sicilia
Emanuele Notarbartolo. Successivamente, nel periodo fascista, Mori,
prefetto di Trapani e poi di Palermo, fece arrestare molti mafiosi ma
soprattutto scoprì che i grandi boss avevano grandi imprese e che la
maggior parte erano iscritti al partito fascista; venne eletto
senatore e quindi richiamato a Roma, perché stava mettendo alla luce
verità scomode per il partito.
Salvo
Lima fu sindaco di Palermo dal 1958 al 1963 e dal 1965 al 1968, fu
inoltre sottosegretario durante il governo di Andreotti del 1974. Il
pentito Tommaso
Buscetta rilasciò
nel settembre del 1992 alcune dichiarazioni secondo cui l'onorevole
Lima aveva avuto rapporti (senza essere affiliato) con la famiglia
mafiosa dei La Barbera. Il pentito Gaspare
Mutolo ha
poi enucleato il ruolo di mediatore ricoperto da Lima tra mafia e
politica, riconoscendo responsabilità in capo all'onorevole Giulio
Andreotti.
Nella sentenza di primo grado del processo contro lo stesso Andreotti
(pronunciata il 23 ottobre del 1999), la Corte dichiara che dagli
elementi di prova acquisiti si desume che già prima di aderire alla
corrente andreottiana, l'on. Lima aveva instaurato un rapporto di
stabile collaborazione con "Cosa Nostra".
Probabilmente la trattativa fu gestita
da Totò Riina e, dopo il suo arresto, da Bagarella, Brusca, i
Graviano e Bernardo Provenzano.
Il 6 marzo 1992 Elio Ciolini, già
condannato per calunnia, manda una lettera al giudice Leonardo Grassi
preannunciando una nuova stagione di stragi (“Nel periodo
marzo-luglio di quest’anno avverranno fatti intesi a
destabilizzare l’ordine pubblico e come esplosioni dinamitarde
intese a colpire quelle persone “comuni” in luoghi pubblici,
sequestro ed eventuale “omicidio” di esponente politico Psi, Pci,
Dc sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro Presidente della
Repubblica. Tutto questo è stato deciso a Zagabria (settembre ’91)
nel quadro di un “riordinamento politico” della destra europea e
in Italia è inteso ad un nuovo ordine “generale” con i relativi
vantaggi economico finanziari (già in corso) dei responsabili di
questo nuovo ordine deviato massonico politico culturale, attualmente
basato sulla commercializzazione degli stupefacenti. La “storia”
si ripete dopo quasi quindici anni ci sarà un ritorno alle strategie
omicide per conseguire i loro intenti falliti. Ritornano come l’araba
fenice.”)
Salvo
Lima fu ucciso il 12 marzo 1992.
Un
altro importante pentito è Leonardo Messina che alla Commissione
Antimafia, il 4 dicembre 1992, dice: “Cosa
Nostra sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, di
diventare padrona di un’ala dell’Italia, uno Stato loro, nostro.
L’obbiettivo è quello di rendere indipendente la Sicilia rispetto
al resto d’Italia e Cosa Nostra in ciò non è sola, è aiutata
dalla massoneria. Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che
riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. E’
nella massoneria che si possono avere contatti totali con gli
imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il
potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra. Cosa Nostra non
può più rimanere succube dello Stato, delle sue leggi, Cosa Nostra
si vuole impadronire ed avere il suo Stato. Questo separatismo è in
collegamento con forze non nazionali e nazionali che sono politiche,
istituzionali ed imprenditrici; oggi Cosa Nostra può arrivare al
potere senza fare un colpo di Stato, Cosa Nostra appoggerà una forza
politica siciliana. Riina è uno dei capi di questa strategia
tendente a separare la Sicilia dal resto d’Italia insieme ai
corleonesi. Devono appoggiare nuovi partiti che tentano di separare
la Sicilia dal resto d’Italia; questi gruppi finora hanno
controllato lo Stato, adesso vogliono diventare Stato. Il tipo di
separatismo non riguardava la Sicilia ma l’organizzazione, quindi
le regioni dove c’è Cosa nostra (Sicilia, Campania, Calabria,
Puglia). Ci sarà un compromesso con chi rappresenterà il nuovo
Stato, se ce la faranno. Loro hanno interesse ad arrivare al potere
con i propri uomini, che sono la loro espressione: non saranno più
sudditi di nessuno. Loro devono raggiungere un fine: che sia la
massoneria, che sia la Chiesa, che sia un’altra cosa, devono
raggiungere l’obbiettivo. Qualsiasi sia la strada.”
(
“Una
delle tante volte in cui io mi ritrovai a conversare con il Miccichè,
il Potente e il Monachino, il discorso cadde sull’
on. Bossi della Lega Nord, che poco tempo prima era andato a Catania.
Io, che allora consideravo Bossi ‘un nemico della Sicilia’,
dissi:
«Perché un’altra volta che viene qua non lo ammazziamo?» Al che
il Miccichè Borino esclamò: «Ma che, sei pazzo? Bossi è giusto».
Il Miccichè spiegò quindi che la Lega Nord, e all’interno di essa
non tanto Bossi, che era un ‘pupo’, quanto il senatore Miglio,
era l’espressione di una parte della Democrazia cristiana e della
Massoneria che faceva capo all’on. Andreotti e a Licio Gelli. Il
Miccichè spiegò ancora che dopo la Lega del Nord sarebbe nata anche
una Lega del Sud, in maniera tale da non apparire espressione di Cosa
nostra, ma in effetti al servizio di Cosa nostra; e in questo modo,
«noi saremmo divenuti Stato”.)
Le leghe meridionali - Nei primi
giorni del maggio 1990 legati alla massoneria e alla destra eversiva,
soprattutto Licio Gelli, appartenente alla P2, e Stefano Delle
Chiaie, capo del gruppo neofascista Avanguardia Nazionale,
cominciarono a fondare, una dopo l’altra, le più svariate
organizzazioni leghiste (Lega Pugliese, Marchigiana, Molisana,
Meridionale, degli Italiani e Sarda). Il 31 gennaio del ‘92
Pittella, già condannato per partecipazione a banda armata, e
Viciconte fondano la Lega Italiana – Lega delle Leghe. Nel ’93
nascono a Massa Carrara il movimento politico Lega Italia e a Catania
“Sicilia libera”. La
DIA (Direzione Investigativa Antimafia) ha sottolineato i rapporti
soprattutto della Lega Meridionale con personaggi legati agli
ambienti eversivi della destra. A capo della segreteria provinciale
della Lega Meridionale vi era Antonino Strano, un uomo politico “in
obbligo” con l’associazione mafiosa, al quale i mafiosi catanesi
potevano certamente “fare riferimento”. Il 6 aprile 1991 durante
un convegno venne pubblicizzato un referendum abrogativo della legge
Rognoni – La Torre, già formalizzato presso la Corte di
Cassazione. Il 17 aprile 1991 Gelli comunica la sua dissociazione al
movimento e il 7 maggio fonda la Lega Italiana con altri ex esponenti
della Lega Meridionale come Serraino, legato alla criminalità
pugliese, Pittella e Viciconte.
Il collaboratore di Giustizia
Massimo Pizza afferma che la Lega meridionale era la longa manus
di Cosa Nostra e che doveva attuare un progetto di rivoluzione
politica, ispirato da Licio Gelli, che sarebbe sfociato in una nuova
forma di Stato; questo progetto di rivoluzione politica si articolava
in tre fasi:
- infiltrazione nelle istituzioni, in particolare nell’Arma dei carabinieri e nella Polizia;
- delegittimazione della classe politica e della Magistratura;
- fase militare: si sarebbe giunti a uno scontro con il Nord.
Il fallimento della Lega Meridionale
era dovuto al voltafaccia di Gelli, al fatto che Andreotti, che
aveva promesso di appoggiarla, si era poi tirato indietro.
Miglio, vero artefice del progetto
politico della Lega Nord, dietro al quale c’erano Gelli e Andreotti
diceva: (“Io
sono per il mantenimento anche della mafia e della 'ndrangheta. Il
Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando.
Che cos'è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto […]
Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni
tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate.”).
Gelli ebbe probabilmente un ruolo nella riorganizzazione dei
rapporti tra mafia e massoneria voluta dai corleonesi con la
costituzione di un’organizzazione massonica ancora più coperta
nata per riciclare l’esperienza della P2, Terzo Oriente. Era
inoltre legato alla criminalità organizzata napoletana e calabrese,
alla Banda della Magliana, alla Sacra Corona Unita ed era in contatto
con esponenti di spicco di Cosa Nostra.
Il collaboratore di Giustizia Filippo
Malvagna afferma che esisteva una strategia di Cosa Nostra volta a
colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall’isola perché
secondo Riina “la pressione dello Stato su Cosa Nostra si era fatta
più rilevante e alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato
non funzionavano più”. In pratica erano saltati i referenti
politici di Cosa Nostra i quali avevano lasciato l’organizzazione
senza le sue tradizionali coperture. Quindi Cosa Nostra voleva
probabilmente fare pressione allo Stato per indurre gli apparati
statali a trattare con la mafia e per allentare la pressione degli
organi statali su Cosa Nostra e sulla Sicilia. Malvagna aggiunge che
viene deciso che la strategia deve essere realizzata con il
contributo di tutte le province e che si devono eseguire attentati e
intimidazioni nei confronti di chi vuole opporsi seriamente a Cosa
Nostra. Nel ’96, a quanto pare, la strategia dà i suoi frutti: si
sono creati nuovi agganci con pezzi delle istituzioni e della
politica.
Il collaboratore Maurizio Avola
conferma le dichiarazioni di Leonardo Messina: dice infatti che Riina
intendeva attaccare lo Stato e voleva creare un nuovo partito
politico nel quale inserire uomini di Cosa Nostra incensurati, che
avrebbero così potuto curare direttamente gli interessi di Cosa
Nostra. Però perché si affermasse questo nuovo partito era
necessario che si instaurasse una situazione di “instabilità delle
istituzioni statali e di reazione popolare contro lo Stato non in
grado di assicurare l’ordine e la sicurezza pubblica” così che,
attuata la strategia di tensione e terrore, “il popolo esasperato
sarebbe stato propenso ad appoggiare gli uomini che sarebbero scesi
tempestivamente in campo, sbandierando a parole programmi di
rinnovamento e di rigore”.
Secondo Messina, inoltre, esistevano
rapporti fra la Lega Nord e settori particolari della massoneria. Ciò
è confermato da Umberto Bossi che, all’interno dell’indagine
“Phoney Money”, racconta di una cena tra il capo della Polizia
Parisi, un uomo della CIA, De Chiara, e un altro uomo vicino ai
Servizi durante la quale il posto di ministro dell’Interno diventa
oggetto di trattativa.
Antonino Galliano dichiarò di aver
saputo dello svolgimento di una riunione nel ’91 cui parteciparono
esponenti di Cosa Nostra, ministri in carica, grossi esponenti delle
istituzioni dello Stato, giudici, prefetti, persone dell’economia
il cui fine era aggiustare la sentenza del Maxi Processo e mettere in
atto qualcosa che destabilizzasse lo Stato per staccare la Sicilia
dal resto d’Italia.
Tullio Cannella parlò di un’altra
riunione tenutasi a Lamezia Terme alla quale avevano partecipato
Sicilia Libera e altri movimenti leghisti o separatisti meridionali e
diversi esponenti della Lega Nord, uno dei quali aveva detto che gli
interessi della Lega Nord e quelli dei movimenti del meridione
coincidevano. Si doveva “dare all’esterno una sensazione
dell’antagonismo fra la Lega Nord e i movimenti del Sud, ma in
realtà si doveva agire di concerto per realizzare la divisione
politica tra Nord e Sud.” Le stragi di Capaci e di via d’Amelio
si inserivano in una strategia più complessa, che poi proseguì
nel’93 con le stragi al Nord le quali erano finalizzate a distrarre
l’attenzione del problema di Cosa Nostra in Sicilia, e a creare un
clima propizio per intervenire in quel momento in tempi più brevi
alla separazione dell’Italia fra Nord e Sud. Alcune famiglie
ritenevano che oltre al progetto separatista bisognasse
nell’immediato trovare una soluzione politica “che desse risposta
alle esigenze più impellenti e immediate di Cosa Nostra, e cioè i
processi, i magistrati, i pentiti e il carcere. Per questo profusero
le loro energie per favorire e appoggiare l’affermarsi del nuovo
partito politico Forza Italia.” La strategia separatista costituiva
comunque il punto di arrivo e la soluzione finale ai problemi di Cosa
Nostra e dei suoi alleati esterni. Va detto che vi era un’ampia
convergenza tra i progetti del nuovo movimento politico capeggiato da
Berlusconi e quelli dei movimenti separatisti, per esempio la tesi
federalista sostenuta anche dalla Lega Nord di Bossi.
La strage di Capaci: E’ il 23
maggio 1992, pochi minuti prima delle 18,00 esplode una potentissima
carica di esplosivo sull’autostrada tra Punta Raisi e Palermo nei
pressi dell’uscita per Capaci provocando la morte del giudice
Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di
scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Nell’aprile
del 2000 la sentenza di appello condanna 29 persone all’ergastolo.
Tra i personaggi condannati c’è
anche Pippo Calò, già in prigione per l’attentato terroristico al
rapido 904 nell’84 che aveva provocato 16 morti e che “avrebbe
dovuto avere la capacità di distogliere l’impegno della società
civile dalla lotta alla criminalità organizzata in genere, e in
particolare contro le organizzazioni legate alla mafia, di provocare
effetti destabilizzanti sulla stessa struttura statale, di
determinare un blocco della marcia intrapresa dal Paese sulla via
della democrazia, di realizzare una concreta intimidazione nei
confronti degli apparati statali, scoraggiando il loro impegno, in
particolare nella lotta intrapresa contro la mafia.” Inoltre
probabilmente se non fosse avvenuta la strage di Capaci Falcone
sarebbe stato nominato Procuratore nazionale antimafia e Andreotti
eletto alla Presidenza della Repubblica. Il pentito Brusca infatti
sostiene che secondo Cosa nostra Andreotti li aveva traditi
consentendo che il maxiprocesso venisse sottratto al dottor
Carnevale. Nella stessa ottica di punizione per l’impegno tradito
va collocato l’omicidio di Salvo Lima, vicino ad Andreotti. Quindi
l’omicidio Lima, la strage di Capaci e quella di via d’Amelio
sono molto probabilmente legate e dietro la matrice mafiosa ci fu
anche “un disegno politico”, come afferma Vito Ciancimino.
La prima trattativa: Antonino
Gioè, che aveva partecipato alla strage di Capaci, venne contattato
da alcuni uomini dei servizi segreti. Il 19 marzo 1993 viene
arrestato insieme a Gioacchino La Barbera; il 29 luglio viene trovato
impiccato. Nella sua ultima lettera parla anche di Paolo Bellini,
definendolo “un infiltrato”. Bellini, pluripregiudicato,
estremista di destra, implicato nella strage di Bologna, legato ai
Servizi segreti deviati e amico di Ciolini, conosce Gioè in carcere
e gli chiede di occuparsi del recupero di alcuni quadri rubati alla
Pinacoteca di Modena facendogli capire che se fosse riuscito a
recuperare i dipinti gli sarebbe stato più facile ottenere
l’affidamento al servizio sociale o la semilibertà. Nell’estate
del 1992 Bellini conosce il maresciallo Roberto Tempesta, del Nucleo
Tutela Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri; anch’egli
è interessato ai quadri. Bellini gli dice che ha contatti in Sicilia
e che sarebbe in grado di infiltrarsi nella mafia. In un secondo
incontro Tempesta dà le fotografie dei quadri della Pinacoteca di
Modena a Bellini che le porta a Gioè spiegandogli che lavora per
conto di un gruppo di onorevoli della zona di Modena, interessati al
recupero dei quadri per la vicinanza delle elezioni. Gioè gli dice
che per i quadri non può fare nulla e che però sarebbe in grado di
recuperare delle opere molto più importanti, in cambio, chiede
l’ammissione in ospedali o gli arresti domiciliari causa malattia
per alcuni detenuti di suo interesse. Bellini passa le fotografie
delle opere e i nomi a Tempesta che gli fa però capire che l’ipotesi
è molto difficile per la stesura dei nomi, per la situazione del
momento. Gioè si mostra molto contrariato. Poco tempo dopo Gioè
viene arrestato, e non si parla più di nulla. Durante gli incontri
tra Bellini e Tempesta, Bellini chiede per sé soldi (200-300
milioni) e l’annullamento o il ritardo nell’esecuzione di una
condanna a tre anni di reclusione che gli era stata inflitta ma
Tempesta dice che non sarebbe statoin grado di gestire una trattativa
del genere e cerca di convincerlo a parlare con altri personaggi.
Tempesta fa un accertamento sulle fotografie ricevute e il 28-29
agosto 1992 si reca dal colonnello Mori, comandante del Ros dei
Carabinieri, spiegandogli la situazione. Mori capisce che le persone
indicate da Bellini rappresentano il Gotha della mafia e che una
trattativa intorno ad essi è impraticabile. Bellini e Tempesta si
sentono comunque svariate altre volte, anche quando il primo viene
arrestato. Tra Gioè e Bellini si parla di un possibile attentato
alla Torre di Pisa, cosa che avrebbe provocato un grandissimi calo
nel turismo a Pisa e in tutta Italia e un conseguente danneggiamento
all’economia.
Quindi la
prima trattativa è basata sullo scambio tra opere d’arte e
benefici per i detenuti. Bellini informa della trattativa Riina, è
lui infatti che gli fa avere le fotografie di altri quadri
disponibili ed è lui che in cambio vuole gli arresti domiciliari di
Giovanni Battista Pullarà, Giuseppe Giacomo Gambino, Bernardo
Brusca, Luciano Leggio e Pippo Calò (solo gli ultimi due nomi sono
sicuri, gli altri tre variano da testimone a testimone). In pratica
dall’interesse dello Stato a recuperare opere d’arte si passa a
quello di non perdere le opere possedute; dalla possibilità di
ottenere benefici facendo recuperare un’opera si passa a quella di
ottenere una contropartita minacciando la distruzione di altre.
La seconda trattativa (Mori –
Ciancimino): nel 1992 il generale Mori è a capo del reparto
Criminalità Organizzata del Ros, vuole ricercare fonti, spunti,
notizie che possano portare gli investigatori all’interno della
struttura mafiosa così incontra, tramite il suo dipendente De Donno,
Massimo Ciancimino nell’agosto del ’92. Lo scopo di questi
incontri era quello di avere da Ciancimino qualche spunto di tipo
investigativo che portasse alla cattura di latitanti o, comunque,
alla migliore comprensione del fenomeno mafioso. In uno di questi
incontri Ciancimino dice: “Io vi potrei essere utile perché
inserito nel mondo di Tangentopoli, sarei una mina vagante che vi
potrebbe completamente illustrare tutto il mondo e tutto quello che
avviene”. Parlando di appalti Mori chiede a Ciancimino se si
può parlare con Cosa Nostra, lui gli risponde che si potrebbe
provare. Così Ciancimino prende contatto: loro accettano la
trattativa, a patto che l’intermediario sia Ciancimino e che si
svolga all’estero, Mori in cambio propone che “i vari Riina,
Provenzano e soci si costituiscano, lo Stato tratterà bene loro e le
loro famiglie”. Ciancimino si arrabbia ma, probabilmente pressato
dalla sua situazione giudiziaria, si fa risentire ai primi di
novembre: De Donno e Vito Ciancimino si incontrano e mettono le cose
in chiaro: lo Stato vuole catturare Salvatore Riina, Ciancimino si
mostra disposto ad aiutarli ma alla fine di dicembre viene arrestato,
poco prima di Riina. Agli inizi di gennaio Ciancimino dice a Mori che
gli vuole parlare: Ciancimino si mostra aperto alla formale
collaborazione con lo Stato. Spiega che l’intermediario tra lui e i
vertici di Cosa Nostra è stato il medico personale di Riina, tale
Cinà. Brusca dice che dietro Mori e De Donno “millantavano
amicizie politiche”. Secondo Brusca, Ciancimino ha aiutato gli
investigatori a catturare Riina probabilmente con il consenso di
Provenzano, per attenuare la dura reazione dello Stato dopo le stragi
e consentire così la sopravvivenza di una parte di Cosa Nostra meno
compromessa nelle indagini. Lo scopo dichiarato del contatto era
avviare una trattativa per porre fine alle stragi.
Paolo Borsellino e la strage di via
D’Amelio: il 21 maggio 1992 Borsellino rilascia un’intervista
a due giornalisti francesi nella quale parla di Mangano e di alcune
indagini in corso che coinvolgono Berlusconi. Mangano era stato
indicato da alcuni pentiti come uomo d’onore appartenente a Cosa
Nostra della famiglia di Pippo Calò, era stato arrestato per
traffico di droga tra Palermo e Milano, dove andava spesso: secondo
Borsellino Mangano era un ponte dell’organizzazione mafiosa nel
Nord Italia. I giornalisti chiedono anche dei rapporti tra Mangano,
Berlusconi e Dell’Utri, Borsellino non rilascia però dichiarazioni
sull’argomento. Il giudice dice che “agli inizi degli anni ’70
Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa, cioè attraverso
l’inserimento sempre più notevole nel traffico di sostanze
stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di
capitali dei quali cercò lo sbocco perché venivano in parte
esportati o depositati all’estero. Così si spiega la vicinanza tra
elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di
questi movimenti di capitali. Per effettuare investimenti Cosa Nostra
cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale
all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo da
poter utilizzare le capacità imprenditoriali al fine di far
fruttificare i capitali di cui erano in possesso.” Secondo
Borsellino di conseguenza era normale il fatto che “chi è titolare
di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo
denaro impiegare e che di conseguenza Cosa Nostra si sia trovata in
contatto con questi ambienti industriali.” Mangano era inserito già
da tempo in un’attività commerciale a Milano quindi “è chiaro
che è anche una delle poche persone di Cosa Nostra in grado di
gestire questi rapporti.” Borsellino, poco dopo la
strage di Capaci, incontrò il capitan De Donno e il colonnello Mori,
interessato al rapporto “Mafia Appalti” che il Ros aveva
consegnato in Procura e dal quale emergeva il controllo di Cosa
Nostra su quasi tutti gli appalti assegnati nella regione e legami
tra Cosa Nostra e alcune società di costruzioni nazionali.
Il pentito Giovanni Brusca riassume così: “Lima venne
ucciso perché ci aveva abbandonati, Falcone perché era il nemico
principale di Cosa Nostra e l’artefice del maxi processo,
Borsellino fu probabilmente ucciso come conseguenza della trattativa.
Una volta che Riina stava trattando con esponenti delle Istituzioni e
voleva ottenere la revisione del maxi processo, il dott. Borsellino
avrebbe certamente costituito un serio ostacolo lungo tale strada in
quanto in caso di esito favorevole della trattativa si sarebbe
opposto con tutte le sue forze ad una eventuale revisione della
sentenza del maxi processo.” ( “Paolo
Borsellino muore per la trattativa che era stata avviata
fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato, dopo
la strage di Capaci ne era venuto a conoscenza e qualcuno gli aveva
detto di starsene in silenzio, ma lui si era rifiutato. A Borsellino
era stato proposto di non opporsi alla revisione del maxi processo e
di chiudere un occhio su altre vicende. Il suo rifiuto ha portato
venti giorni dopo a progettare ed eseguire l’attentato in via
D’Amelio.”) Totò Riina aveva preparato un “papello”
per interrompere la strategia stragista in cambio di vantaggi per i
mafiosi.
Alle 16.58 del 19 luglio 1992 una
violentissima esplosione in via Mariano D’Amelio a Palermo provoca
la morte di Paolo Borsellino, Procuratore Aggiunto presso la Procura
distrettuale della Repubblica di Palermo, e degli agenti di scorta
Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e
Eddie Walter Cosina. Sulla strage di via D’Amelio la ci sono state
quattro indagini; il quarto troncone d’indagine, avviato dalla
Procura di Caltanissetta, riguarda gli intrecci tra mafia,
imprenditoria e uomini politici.
Il pentito Cancemi: nel ’90 o
’91 Riina disse a Cancemi di riferire a Vittorio Mangano che si
doveva fare da parte, che Riina aveva nelle mani Dell’Utri e
Berlusconi. Poco tempo dopo Riina gli disse che la Fininvest, di
Berlusconi e Dell’Utri, era interessata a comprare tutta la zona
vecchia di Palermo; da loro Cosa Nostra ricevette infatti 200
milioni, versati ogni sei mesi o un anno; il tramite era Gaetano
Cinà. Riina voleva poi screditare i pentiti modificando Leggi e per
farlo dovevano “star vicino a queste persone” (Dell’Utri e
Berlusconi). Borsellino stava indagando su mafia e appalti, e a
questo discorso Riina collegava anche Dell’Utri e Berlusconi.
Cancemi racconta che Vittorio Mangano “faceva quello che voleva
nella tenuta di Berlusconi ad Arcore. Là c’era un covo di mafiosi
che organizzavano sequestri di persona, vendevano droga.”
Il pentito Cannella disse che la strage
di via D’Amelio “venne eseguita per fare una cortesia ad altre
persone quasi certamente estranee a Cosa Nostra”. Cosa Nostra si
adoperò, per allentare certe pressioni, per far votare Forza Italia.
Giovan Battista Ferrante racconta di un’alleanza che sarebbe stata
stretta per attuare le stragi di Capaci e Via D’Amelio tra Cosa
Nostra e la massoneria, della quale facevano parte anche “parecchi
sbirri magistrati e anche avvocati, comandanti dei Carabinieri e
componenti della Polizia, e che aveva collegamenti anche con i
servizi segreti”. Il “papello” costituiva per Riina la base
per una seria trattativa con lo Stato.
Il proiettile al giardino dei
Boboli: l’idea di questa azione criminosa, avvenuta il 5
novembre 1992, nasce nel contesto dei colloqui tra Gioè e Bellini,
quando parlavano di bombe nei monumenti; esso rappresentò il
preludio in tono minore della campagna stragista. Fu collocato a
Palazzo Pitti da Mazzei, Gullotta, Cannavò e Facella perché dopo le
stragi di Borsellino e Falcone nella zona di Palermo c’era stata
una repressione delle Forze dell’Ordine talmente forte che ai
mafiosi “mancò il respiro”, quindi volevano che le forze
dell’ordine si “calmassero” e che la popolazione si impaurisse.
La bomba comunque non doveva esplodere, era solo un atto
dimostrativo, ma i giornali non riportarono la notizia. Queste le
dichiarazioni di Gullotta, Brusca invece sostiene che l’atto doveva
servire a lanciare un messaggio allo Stato sul 41-bis, per creare
allarmismo e far sì che si aprisse un canale di comunicazione
tramite Bellini. Brusca inoltre fece sapere a Berlusconi che la bomba
a mano agli Uffizi di Firenze l’aveva messa Cosa Nostra su
suggerimento dei servizi segreti. Cosa Nostra a quanto pare nel ’94
voleva sfruttare il fatto che Berlusconi era diventato presidente del
Consiglio, facendogli arrivare informazioni sugli attentati del 1993,
perché facesse qualcosa per il 41-bis.
L’arresto di Bruno Contrada:
Il questore Bruno Contrada, funzionario del Sisde (Servizio Italiano
per le informazioni e la Sicurezza DEmocratica), viene arrestato il
24 dicembre 1992 per concorso in associazione mafiosa, era il capo
della squadra mobile di Palermo dal 1973. Contrada è accusato da
quattro pentiti di essere stato avvicinato da Cosa Nostra nel 1976
quando era funzionario della Procura di Palermo. Il pentito Rosario
Spatola dichiara che “Contrada era una massone a disposizione di
Cosa Nostra”. Altri scandali, denunciati dal segretario generale
del Cesis (Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e
Sicurezza, fu un organo del servizio segreto italiano) Fulci, il
quale presenta il sospetto che alcune persone del Sisde abbiano
collaborato con la Falange Armata. Vengono trovati poi degli illeciti
amministrativi, le indagini su ciò si intrecciano con inchieste sui
fondi neri del Sisde e temporalmente con la campagna di bombe del
’92-’93. Il 24 giugno del ’93 viene arrestato l’ex
amministratore del Sisde, il 27 luglio esplodono a Roma e a Milano 3
autobombe. L’inchiesta della procura permette di scoprire circa 60
miliardi di fondi neri. Più avanti un altro scandalo coinvolgerà il
Sisde, per dei fondi neri elargiti dal servizio a un alto numero di
persone, funzionari, politici che coinvolgono anche la carica di
ministro degli Interni.
La tentata strage di Via Fauro:
alle 21.35 in via Fauro a Roma, avviene una violentissima esplosione.
Non rimane ucciso nessuno. Nella via stavano passando due macchine:
una con il presentatore televisivo Maurizio Costanzo e la sua
convivente Maria De Filippi, l’altra con le due guardie del corpo
di Costanzo. Nel settembre 1991 Riina
comunica la decisione di voler uccidere il giornalista Costanzo, nel
’92 ci fu un tentativo di omicidio che poi fallì. A quanto pare le
trasmissioni di Costanzo davano molto fastidio a Cosa Nostra. Secondo
alcuni pentiti l’attentato è fallito per sbaglio, secondo altri fu
un attentato fatto fallire volontariamente per mandare un messaggio a
un giornalista che si stava mobilitando troppo contro Cosa Nostra e
che meditava di scendere in politica assieme a Michele Santoro.
Un’altra interpretazione ancora è che l’attentato sia fallito
per mandare un messaggio a chi nella Fininvest, come Costanzo
appunto, si opponeva all’entrata in politica di Berlusconi;
l’attentato non doveva quindi necessariamente uccidere ma doveva
servire a sbloccare le resistenze di questo giornalista e di altre
persone. Bagarella sembra che disse: “no, l’importante era farlo
impaurire. Sai, non è il caso, perché essendo amico di amici di
Canale 5, non era il caso di farlo morire.”
La strage di Via dei Georgofili:
poco dopo l’una di notte, il 27 maggio 1993, una violentissima
esplosione sconvolge il centro storico di Firenze. Nel crollo della
Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili muoiono i
quattro membri della famiglia del custode e nel rogo di un edificio
nella stessa via muore un’altra persona. Il 25% delle opere della
Galleria degli Uffizi viene danneggiato. L’Accademia dei Georgofili
era anche un luogo di ritrovo di uomini politici influenti, come
ministri, ex ministri, e, soprattutto, l’allora presidente del
Senato Spadolini. L’Accademia “contava tra i suoi aderenti un
certo di membri autorevoli del Grande Oriente d’Italia, la più
importante obbedienza massonica d’Italia. Quando era presidente del
Consiglio nel ’92, Spadolini fu il primo a lanciare l’allarme su
oscure manovre della P2 e non può non sorprendere che uno degli
obbiettivi della campagna terroristica fosse, anche solo
simbolicamente, così vicino al presidente del Consiglio.” Secondo
Spadolini “non si può fissare un confine preciso tra terrorismo e
P2, né tra mafia e P2”.
Una macchina piena di esplosivo
vicino a Palazzo Chigi: è il 2 giugno 1993, festa della
Repubblica. In Via dei Sabini, dietro la Banca Commerciale e vicino a
Palazzo Chigi, viene segnalata ai Carabinieri un auto sospetta, una
cinquecento blu. La bomba all’interno della macchina viene
disinnescata. Secondo i Carabinieri “certamente non era un’azione
dimostrativa, ma un attentato vero e proprio, con l’auto pronta ad
esplodere appena il segnale fosse stato inviato”. Poche ore dopo un
uomo, sostenendo di parlare per la Falange armata, chiama l’Ansa
dicendo: “L’attentato delle 13 a Palazzo Chigi è fallito. Adesso
colpiremo Questura e Comando Carabinieri”.
Nella notte tra il 20 e
il 21 settembre ’93, in un treno viene trovato un ordigno privo di
detonatore, grazie a una segnalazione del Sisde. Il 16 ottobre viene
arrestato il carabiniere a capo del centro Sisde di Genova Citanna,
accusato da un suo informatore di aver organizzato il ritrovamento
per attribuirsene il merito.
La strage di Via Palestro: sono
circa le 23 del 27 luglio 1993 quando due vigili urbani di Milano
trovano una vettura parcheggiata in Via Palestro dalla quale sta
uscendo del fumo. I vigili chiamano immediatamente i pompieri. Dopo
poco, l’auto esplode. Muoiono il vigile urbano Alessandro Ferrari e
i vigili del fuoco Stefano Picerno, Sergio Pasotto e Carlo La Catena.
Viene poi ritrovato agonizzante Driss Moussafir, che morirà durante
il trasporto all’ospedale. L’esplosione raggiunge la condotta del
gas sottostante alla sede stradale, che si incendia: per ore fiamme
altissime si levano in cielo poi esplode anche una sacca di gas
formatasi proprio sotto il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea).
Nello stesso giorno, nel giro di 50 minuti, sono esplose quindi due
bombe a Roma e una a Milano. A quanto pare a Milano c’è stato un
problema: la bomba è esplosa un’ora – un’ora e mezza prima,
doveva scoppiare contemporaneamente a quelle di Roma e 150 metri più
avanti. Scarano disse a Di Natale che le persone che gli stavano
dando una mano erano persone per aiutare tutte le persone che erano
nel carcere duro, queste persone si stavano interessando agli
attentati.
Le stragi
sono state fatte in luoghi che non hanno un significato preciso, se
non che sono genericamente intesi come “patrimonio artistico”.
Secondo Pennino tra i mandanti delle stragi era coinvolta la
massoneria e altri settori e circuiti istituzionali. Secondo il
pentito Cancemi la lontananza delle stragi dalla Sicilia era mirata a
qualche cosa, come se qualcuno avesse suggerito di colpire tali
luoghi a Cosa Nostra.
La strage di Piazza S. Giovanni in
Laterano: alle ore 0.03 il 28 luglio 1993 in Piazza San Giovanni
in Laterano a Roma avviene un’esplosione: 7 persone rimangono
ferite gravemente e opere artistiche vengono danneggiate. Il
collaboratore di giustizia Tullio Cannella racconta che Bagarella
aveva sottolineato chiaramente che “erano da ricercare in ambienti
economico, politico, massonici, i veri mandanti ed ideatori della
strage.” Quindi ci fu una concomitanza di interessi con Cosa Nostra
di ambienti politicoaffaristici, quindi economici e massonici.
L’autobomba alla chiesa di San
Giorgio al Velabro: poco dopo la mezzanotte del 27 luglio 1993, a
Roma esplode un’altra bomba. La Chiesa del Velabro subisce
gravissimi danni, ma per fortuna non ci sono morti; accanto alla
chiesa c’è un istituto nel quale alloggiano sette religiosi
dell’Ordine dei Padri Crocigeri. Nella Chiesa di San Giorgio in
Velabro si riuniscono usualmente gli aderenti al Sacro Militare
Ordine Costantiniano di San Giorgio, un ordine cavalleresco molto
vicino alla chiesa cattolica e al quale aderiscono molti personaggi
di ordine nobiliare ma anche persone che rivestono incarichi
ufficiali.
“A questo gioco al massacro io non
ci sto”: dopo le due esplosioni la linea telefonica di Palazzo
Chigi va in tilt per due ore. La mattina successiva il prefetto
Finocchiaro rassegna le sue dimissioni dalla Direzione del Sisde
dichiarando: “Vorrei mettere subito in chiaro che, per quanto ci
riguarda, la nostra analisi è arrivata subito dopo Via dei
Georgofili quando ai piani altri tutti si accanivano sulla pista
mafiosa. Roba da matti parlare di mafia quando è chiaro che la
vecchia criminalità organizzata è fuorigioco da un pezzo, che sopra
di loro si è inserito un disegno internazionale molto più ampio con
giri di capitale inimmaginabili”. Il 28 ottobre successivo l’ex
amministratore del Sisde comincia a raccontare ai magistrati i
pagamenti in nero che il servizio segreto civile elargiva ai politici
e ai funzionari delle istituzioni, dal ministro degli Interni in giù.
Le voci dicono che nell’elenco sarebbe incluso anche il Presidente
della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il quale fa un lungo discorso
agli italiani, quasi fosse la risposta a una proposta ricevuta
all’interno di un discorso complesso, di una vera e propria
trattativa. (“Una constatazione. Prima si è tentato con le
bombe ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali. Occorre
rimanere saldi e sereni. Penso che sia giunto il momento di fare un
esame chiaro dell'attuale realtà italiana per trarne conclusioni
forti ed efficaci. Il grande problema che dobbiamo tutti insieme -
Capo dello stato, potere legislativo, esecutivo e giudiziario -
affrontare e risolvere è quello di fare giustizia nei confronti di
chi ha commesso fatti gravi contro la legge, e al tempo stesso di non
recare danno alla vita dello Stato e alla sua immagine nel mondo.
Nessuno può stare a guardare di fronte a questo tentativo di lenta
distruzione dello Stato, pensando di esserne fuori. O siamo capaci di
reagire, considerando reato il reato, ma difendendo a oltranza e gli
innocenti e le nostre istituzioni repubblicane o condanniamo tutto il
popolo e noi stessi ad assistere a questo attentato metodico, fatale
alla vita e all'opera di ogni organo essenziale per la salvezza dello
stato. A questo gioco al massacro io non ci sto.
Io sento il dovere di non starci, e di dare l'allarme. Non ci sto, non per difendere la mia persona, che può uscire di scena in ogni momento ma per tutelare con tutti gli organi dello Stato l'istituto costituzionale della presidenza della Repubblica. Il tempo che manca per le elezioni non può consumarsi nel cuocere a fuoco lento, con le persone che le rappresentano, le istituzioni dello Stato. Questa mia presa di posizione non ha alcuna recondita intenzione di allontanare le elezioni politiche. Il mio pensiero fu chiaramente espresso il 4 ottobre scorso a Bologna, ed è di assoluto, doveroso, sostanziale rispetto del risultato referendario che ha voluto una nuova legge elettorale perché sia attuata.
Tale volontà non muta e sono vane le pressioni che si manifestano da più parti con varia arroganza e con diversi anche opposti intendimenti. E troppe volte con forme rozze e volgari fino al punto da configurare reato. Per questo, pure nella asprezza disgustosa della sleale battaglia, mio dovere primario è di non darla vinta a chi lavora allo sfascio. Lo stato democratico innanzitutto. Dunque il mio no all'insinuante e insistente tentativo di una premeditata distruzione dello Stato è un no fermo e motivato. Per questo, nel momento in cui - e spero sia al più presto - potrò essere legittimamente a conoscenza delle accuse rivolte alla mia persona, nella serena coscienza di avere sempre e solo servito lo stato nell'assoluto rispetto delle legge reagirò con ogni mezzo legale contro chiunque abbia creduto di poter attentare alla mia onorabilità.
Diamoci una scrollata, per distinguere il male dalle malignità, dalle bassezze, dalle falsità, dalle trame di vario genere e misura. La patria è di tutti e ha bisogno di tutti. Ma ne devono rispondere soprattutto coloro che occupano le responsabilità le più vitali e costituzionalmente essenziali alla vita della Repubblica. Siamo a un passaggio difficile per l'Italia e per il popolo italiano. Non si affronta che con la responsabilità e il sacrificio, con l'amore per la patria. A questo siamo chiamati, a questo occorre rispondere".)
Io sento il dovere di non starci, e di dare l'allarme. Non ci sto, non per difendere la mia persona, che può uscire di scena in ogni momento ma per tutelare con tutti gli organi dello Stato l'istituto costituzionale della presidenza della Repubblica. Il tempo che manca per le elezioni non può consumarsi nel cuocere a fuoco lento, con le persone che le rappresentano, le istituzioni dello Stato. Questa mia presa di posizione non ha alcuna recondita intenzione di allontanare le elezioni politiche. Il mio pensiero fu chiaramente espresso il 4 ottobre scorso a Bologna, ed è di assoluto, doveroso, sostanziale rispetto del risultato referendario che ha voluto una nuova legge elettorale perché sia attuata.
Tale volontà non muta e sono vane le pressioni che si manifestano da più parti con varia arroganza e con diversi anche opposti intendimenti. E troppe volte con forme rozze e volgari fino al punto da configurare reato. Per questo, pure nella asprezza disgustosa della sleale battaglia, mio dovere primario è di non darla vinta a chi lavora allo sfascio. Lo stato democratico innanzitutto. Dunque il mio no all'insinuante e insistente tentativo di una premeditata distruzione dello Stato è un no fermo e motivato. Per questo, nel momento in cui - e spero sia al più presto - potrò essere legittimamente a conoscenza delle accuse rivolte alla mia persona, nella serena coscienza di avere sempre e solo servito lo stato nell'assoluto rispetto delle legge reagirò con ogni mezzo legale contro chiunque abbia creduto di poter attentare alla mia onorabilità.
Diamoci una scrollata, per distinguere il male dalle malignità, dalle bassezze, dalle falsità, dalle trame di vario genere e misura. La patria è di tutti e ha bisogno di tutti. Ma ne devono rispondere soprattutto coloro che occupano le responsabilità le più vitali e costituzionalmente essenziali alla vita della Repubblica. Siamo a un passaggio difficile per l'Italia e per il popolo italiano. Non si affronta che con la responsabilità e il sacrificio, con l'amore per la patria. A questo siamo chiamati, a questo occorre rispondere".)
La strage dello Stadio Olimpico:
un’altra strage organizzata da Cosa Nostra è fallita, una strage
della quale l’opinione pubblica è rimasta praticamente all’oscuro.
Una autobomba sarebbe dovuta esplodere durante il derby Roma –
Lazio all’inizio del 1994 accanto ad alcune corriere che
trasportavano i Carabinieri per il servizio d’ordine pubblico. Se
l’autobomba fosse esplosa avrebbe provocato più di duecento morti
nell’Arma dei Carabinieri. Un problema tecnico fa in modo che la
bomba non esploda.
Formello: Il 14 Aprile 1994 a
Formello, una località nei pressi di Roma ,Cosa Nostra prepara un
attentato al collaboratore di giustizia Salvatore Contorno. Questa
volta non usano più un autobomba ma, per fare in modo che
l’attentato non sia collegato a quelli di Roma, Milano e Firenze,
un ordigno esplosivo. Nel primo tentativo l’ordigno non esplode,
durante il secondo viene trovato dalla polizia. Questa fu l’ultima
delle sette stragi messe in cantiere dalla mafia per l’estate
93-94. Quindi l’ultimo avviso stragista fu dato proprio ai “pentiti
di mafia”.
Fabia Nardacchione e Eleonora Spurio,
gruppo Graziella Campagna del Liceo Fermi